Placemaker e rigenerazione urbana. Intervista a Elena Granata

Placemaker e rigenerazione urbana. Intervista a Elena Granata

Come cambiano le città: casi di rigenerazione urbana | con Elena Granata

Sempre più spesso sentiamo parlare di rigenerazione urbana. Da dove arriva questa idea e perché quella che stiamo vivendo può essere una stagione di rigenerazione?

Paolo Bovio di Will ne ha parlato con Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile.

Una puntata alla scoperta dei “placemaker”, figure ibride e inedite, al lavoro per ridare vita agli spazi abbandonati.

Paolo Bovio (cit. da Elena Granata, “Placemaker”): “Che cos’è una città? La città è ciò che accade tra una casa e l’altra, ed è dalla qualità di questo spazio intermedio e di prossimità che dipendono il benessere e la salute delle persone.”

Benvenuti a una nuova puntata di “Città”.

Io sono Paolo Bovio e oggi parliamo di rigenerazione urbana e lo facciamo con Elena Granata, docente di Urbanistica presso il dipartimento di architettura studi urbani del Politecnico di Milano ma anche autrice e vicepresidente della Scuola di economia civile. Benvenuta.

Rigenerazione urbana, un termine che da qualche anno è entrato nel dibattito pubblico italiano non solo in maniera sempre più prepotente ma come facciamo molto spesso in questo nostro podcast, che è un viaggio partito sulle tracce delle esplorazioni e delle trasformazioni urbane del nostro tempo, partiamo spesso dalla domanda “che cos’è”.

Allora vorrei chiederti che cos’è la rigenerazione urbana.

Elena Granata: Allora, ogni volta sembra un termine nuovo che riscopriamo come se fosse appena nato ma la rigenerazione nasce con la città. Le città nascono e da quel momento si devono rigenerare perché continuamente cambiano, perché sono vive, perché sono degli ecosistemi quindi si aggiustano si modificano, cambiano nel tempo.

Negli ultimi anni però, diciamo una volta ogni decennio, riscopriamo questo valore, diciamo, euristico della rigenerazione per cui ci innamoriamo di questo termine.

In parte perché arrivano dei finanziamenti che spingono nella direzione proprio della riqualificazione degli immobili, rigenerazione degli spazi, e ogni volta lo scopriamo da capo questa rigenerazione.

Allora, per come la raccontiamo oggi, è tutto quel processo che ci porta a lavorare sulla città che abbiamo ereditato dal passato.

Noi ci troviamo una città in eredità, e questa città è come un abito vecchio che non è più adatto al nostro cambiamento.  Abbiamo bisogno di sistemarlo e di aggiustarlo.

Riqualificazione vuol dire in particolare agire sullo spazio fisico. Rigenerazione non è solo lo spazio fisico ma sono anche le persone, le relazioni, l’ambiente naturale. Quindi è una parola un po’ più complessa.

P. Bovio: Quindi coinvolge una serie di dimensioni molto più ampie del semplice spazio fisico, se capisco bene.

Elena Granata: Esatto. Dovrebbe essere così. Rigenerare vuol dire ridare vita, reinventare, re-immaginare, riportare economie dove non ci sono più. E quindi è una parola ricca con tanti significati, è una parola bellissima che spesso impoveriamo, però, nel momento in cui passiamo dal nominarla al praticarla.

Paolo Bovio: Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il famoso PNRR, che comunque traccia un po’ la rotta di dove va il paese nei prossimi anni, ecco, ci sono ben 3,4 miliardi che sono stati stanziati per numerosissimi progetti di rigenerazione urbana, almeno così definita dentro il PNRR. Sono precisamente 1784 progetti e sono stati presentati, approvati da comuni in tutta Italia.

Dunque, quello che ti vorrei chiedere è: siamo dentro un tempo di rigenerazione urbana?

Eleana Granata: Sicuramente lo sarà. Sarà un tempo nel quale noi avremo tanti soldi da spendere sotto questo cappello.

Il problema è che sotto questo cappello noi metteremo cose diverse. Ci saranno la riqualificazione, la rigenerazione di una vecchia ferrovia, di una vecchia scuola, di un immobile, di una fabbrica.

Quindi dentro questa stagione che si aprirà ci staranno oggetti diversi.

C’è un punto che, però, sarà dirimente; farà la differenza tra spendere bene i soldi o non spenderli bene.

Paolo Bovio: Qual è il punto?

Elena Granata: Il punto è questo. Noi siamo molto bravi, molto capaci, a riqualificare gli spazi fisici, l’immobile. A renderlo più efficiente, più bello, a riqualificarlo dal punto di vista delle strutture fisiche.

Ma il manufatto da solo non basta.

Se questo non diventa occasione per attivare nuove economie, fare promuovere più socialità tra le persone, accrescere i valori di tutto il contesto, riqualificare un immobile non serve a niente.

E, quindi, noi siamo bravissimi perché le metodologie, ma anche i processi politici, lo consentono, a occuparci delle cose e non occuparci tanto nel contesto delle persone.

Se noi ancora una volta riduciamo la rigenerazione, che è un processo di respiro, di valore di senso, di cultura, semplicemente alla dimensione di valorizzazione immobiliare, da sviluppisti, facciamo un’operazione banale che porterà qualche bell’immobile in giro per l’Italia ma non riattiverà quell’economia, quella socialità di cui oggi abbiamo spasmodicamente bisogno.

Paolo Bovio: sottolineavi un aspetto, che appunto ho ritrovato nel tuo libro, è quando scrivi che “le città che abbiamo ereditato sono ancora organizzate secondo temporalità e ritmi fordisti, che questo periodo di pandemia ha per la prima volta davvero messo in discussione”.

Che cosa intendi e perché questo tempo che si apre non può non essere solo un tempo di valorizzazione immobiliare ma un tempo in cui attivare dei processi realmente di rigenerazione?

Elena Granata: Allora, com’è fatta la città che abbiamo ereditato dal passato? È divisa in funzioni, in zone residenziali, in una city centrale dove ci sono magari il luogo del comando e della dirigenza di tutte le attività. Poi di periferie che sono di solito quelle più lontane dai processi decisionali.

Così è fatta la città vecchia.

Paolo Bovio: Rispecchia anche un po’ la struttura anche di potere, struttura economica ma anche struttura politica.

Elena Granata: Esatto. E che tendenzialmente, Milano è perfetta in questo, è radiocentrica.

C’è un cuore pulsante che è la city. E poi, man mano che con un gradiente noi ci allontaniamo da questo centro, diminuiscono i valori immobiliari e in qualche modo cresce l’elemento di perifericità. Quindi meno servizi, meno connessioni, meno qualità e bellezza.

Questo più o meno è il modello secondo il quale si sono sviluppate tante città. Le città italiane sono fatte ancora così.

E sono organizzate secondo una temporalità, io dico, fordista, quindi secondo il modello della fabbrica per cui tutta la città è regolamentata su uno standard orario che era quello che fino a due anni fa conoscevamo tutti.

Proviamo a guardare tridimensionalmente la città.

Noi non abbiamo più soltanto spazi e tempi determinati per funzioni e scatole. Ma abbiamo un sistema, un organigramma molto più complesso, ma anche più appassionante, anche più liberante, più dinamico, più vivace, che però va reinventato.

E quindi dobbiamo capire in che modo una città funziona secondo orari diversi, come si può immaginare luoghi di lavoro che non siano più legati alle otto ore, alle cinque giornate lavorative… magari sulle classiche due giornate dello smart working.

Dove vanno a vivere le persone che non stanno in città e cosa chiedono alla città quando tornano? E quindi tornano per il tempo libero, tornano perché la città offre anche spazi di ricreazione, di rigenerazione della testa con teatri, cinema, … Che cosa chiedono alle città?

Allora, siamo in un momento di grandissima trasformazione che richiede la capacità, la lungimiranza, di non rimpiangere la città per scatole e per tempi rigidi del passato ma di guardare a quello che potrebbero diventare.

Paolo Bovio: Ed è proprio qui che forse anche risiede una ennesima opportunità per il nostro Paese. Ne abbiamo parlato su Will, anche poco tempo fa, di come addirittura il 3 per cento del territorio se non sbagliamo i conti, comunque più di 100 milioni di metri quadrati, un’area equivalente più o meno all’Umbria, è composta nel nostro Paese da aree industriali dismesse.

Tu come li vedi? Quale dinamicità possono restituirci? E anche magari qualche storia che conosci di come sono stati utilmente reintegrati nel tessuto urbano.

Elena Granata: Allora noi siamo molto attenti all’abbandono industriale. Ma noi possiamo dire che l’Italia ha già conosciuto quattro tipi di abbandoni.

Il primo è stato quello dei contesti agricoli. Abbiamo voltato le spalle all’agricoltura e quindi c’è tantissimo abbandono di suoli agricoli. Però questo non lo nominiamo perché siamo meno abituati ad andarlo a monitorare.

Poi abbiamo conosciuto l’abbandono dei manufatti industriali. Le fabbriche, le fabbrichette… Pensate cosa è stata la Brianza, cosa sono stati i grandi distretti industriali italiani. E, quindi, tutta l’Italia è una sequenza infinita di piccoli capannoni in abbandono; molti antichi che risalgono all’economia florida degli anni ’50, molti recenti che abbiamo costruito e non li abbiamo utilizzati. E quindi l’abbandono. Nuovi, vuoti e non venduti.

E quindi in realtà li dovremmo raccontarci un’altra storia. Che non ci raccontiamo adesso.

Abbiamo già l’abbandono dei centri commerciali, …

Bovio: che sono ancora in costruzione e che sono in parte già abbandonati.

Elena Granata: sì, o che hanno avuto una vita molto più breve perché abbiamo prodotto più centri commerciali di quelli che siamo stati in grado di tenere vivi, e quindi abbiamo già l’abbandono dei centri commerciali e ora abbia avremo l’abbandono degli uffici e dei grandi grattacieli che abbiamo pensato per il modello diciamo dirigenziale e di governo, di concentrazione degli uffici, delle banche, delle fondazioni.

E quindi nel nostro paese siamo già alla quarta stagione di abbandono.

Questo dice che l’economia, il territorio, cambiano molto in fretta e che abbiamo più contenitori delle attività di contenuti.

Abbiamo più contenitori che contenuti. O meglio, abbiamo sempre bisogno di reinventare il contenuto.

Allora, se dovessi dire, oggi siamo già stati bravissimi a rigenerare molti spazi ex industriali… Il classico loft… Pensate cosa è stata tutta la stagione dei loft delle piccole aziende che sono state trasformate ad uso abitativo. Oppure abbiamo le classiche belle fabbriche che sono diventati luoghi dell’arte, del terziario avanzato, del digitale.

E quindi in realtà abbiamo molta dimestichezza con questi contenitori.

Paolo Bovio: Beh, Will stessa, dove stiamo registrando questo podcast, che è in un’area periferica di Milano (siamo nel quartiere Corvetto) era una vecchia fabbrichetta, un’officina. Oggi ospita 3-4 diverse realtà.

Elena Granata: riutilizzare uno spazio antico, vecchio, preesistente, che aveva un altro uso è molto stimolante dal punto di vista progettuale perché consente di lavorare in uno spazio che prima era destinato alla fabbrica e che poi diventa adattissimo ad altre attività.

Questo ci dice che il gioco più appassionante degli esseri umani è abitare, riabitare contenitori e ridargli senso.

PLACEMAKER, IL LIBRO

Paolo Bovio: Il tuo libro si intitola “Placemaker”, creatori dei luoghi che abiteremo. Chi sono oggi i soggetti che invece fanno quel passo, che usano l’immaginazione per dire “ok, questo che ora è un tessuto in qualche maniera sconnesso, lasciato indietro, dimenticato, svuotato delle funzioni”… vedono la possibilità di riempirlo con nuove funzioni e se li inventano laddove non ci sono… Chi sono i pacemaker oggi?

Elena: Partiamo dal problema a cui siamo arrivati.

2020 è l’anno nel quale la massa artificiale di oggetti costruiti dall’uomo e quindi strade, autostrade, palazzi, elettrodomestici, oggetti, metalli, legno… tutto quello che l’uomo ha realizzato, di artificiale, ha superato la biomassa naturale. Quindi, quel patrimonio di natura che noi abbiamo ereditato dai nostri progenitori cioè da quando esiste il mondo.

Sono in parità, con un piccolo sorpasso da parte dei materiali artificiali.

Questo ci dice che noi siamo una specie ingombrante e infestante, cioè che riempie di oggetti, che costruisce, che edifica, che butta sul territorio in maniera spesso disarmonica oggetti, tanto per produrli.

Paolo Bovio: Tra l’altro, questo trend è esponenziale. Ossia, all’inizio del Novecento eravamo molto lontani dall’essere anche solo in condizione di gareggiare. E adesso, invece, negli ultimi anni, se non sbaglio la curva sale.

Elena: Esatto, e questo vuol dire che noi abbiamo fatto una corsa negli ultimi decenni a costruire, a incrementare la nostra impronta ecologica. Che non è soltanto l’impatto delle nostre azioni ma proprio l’ingombro. Oggetti.

Allora, è ovvio che questa crescita dell’urbanizzato in maniera così, potremmo dire, dissoluta, senza logica, senza senso… alle volte non c’è neanche una domanda abitativa o di imprese che chiedono più spazi ma è proprio il processo del mercato immobiliare che ha la sua logica nel riprodursi.

È chiaro che in questo momento noi non abbiamo bisogno di figure che aggiungono materiale, che costruiscono. Il classico architetto, l’ingegnere, l’urbanista, il politico.

Noi abbiamo bisogno di una nuova figura, che è già all’opera, che si chiama placemaker, che ha la vocazione di togliere, sottrarre, dare senso, reintrodurre la natura dove non c’era, attribuire un significato a uno stabile che l’ha perso, immaginare le nuove funzioni che riconnettano un territorio che è ovviamente pieno di oggetti che non hanno più un legame fra di loro.

Bovio: Mi ricorda questo passaggio la filosofia del rammendo, che è molto cara anche a Renzo Piano.

Elena Granata: Però rammendo ha qualcosa un po’ di misero. Perché c’è sempre l’idea di aggiustare.

CHI È IL PLACEMAKER.

Il placemaker ha una marcia in più, non è che si accontenta semplicemente di mettere qualche pezza… No, il placemaker è un visionario vede la soluzione dove gli altri vedono un problema. Ha creatività, immaginazione. Per cui è un soggetto molto contemporaneo.

Chi sono i placemaker?

Bovio: la domanda, a questo punto, che sia io, sia voi che siete all’ascolto, ci stiamo un po’ facendo.

Elena: Esatto. Chi è il placemaker? Intanto non l’ho inventato ma ho osservato che è all’opera guardando i nuovi profili professionali.

Allora, ci sono dei designer, parlo di Daan Roosegaarde, in particolare in Olanda, che non si occupano soltanto più di fare i designer ma si occupano di risoluzione delle questioni legate al clima e all’ambiente.

E quindi si immaginano che la loro visione da designer si coniughi con nuove spazialità, con l’intervento sullo spazio pubblico, con l’illuminazione, con la produzione di energia.

Sono architetti ovviamente più consapevoli del valore dei luoghi, e quindi sulla necessità di ricucire, in questo senso sì, ma sono anche preti che decidono, che stanno in periferia come Antonio Loffredo che è uno degli eroi del libro che da Rione Sanità decide di riqualificare e rigenerare le catacombe che stanno sotto la sua parrocchia facendole diventare un luogo di bellezza, di promozione culturale ma anche di economia civile.

E quindi chi è il placemaker? È un inventore, un regista, quello che tiene insieme la dimensione economica, le imprese, la visione ma anche la capacità di trovare finanziamenti, ma anche la capacità di tenere insieme come un direttore di orchestra quelle risorse che ci sono nel territorio ma che non fanno sistema.

E, quindi, l’attitudine fondamentale è quella di essere un genio contemporaneo.

Bovio: Quindi non stiamo parlando, se capisco bene, solo di professionisti che hanno delle competenze specifiche verticali, mi viene da dire, su tutto ciò che è progettazione urbana e dintorni ma è invece qualche cosa di più trasversale, forse che non coinvolge solo chi abitualmente siamo abituati a pensare come coloro che fanno la città.

Cioè, in qualche maniera tutti in questa visione possono essere creatori di luoghi.

Elena: da un lato sì, è più democratico, più aperto il processo e quindi il libro è popolato da personaggi improbabili… un sindaco che risolve il problema dell’illuminazione in una valle che non ce l’ha, e quindi col suo architetto di fiducia monta un enorme specchio che cattura la luce del sole e illumina una valle.

E quindi non è il classico architetto che costruisce, non è l’archistar e quindi in qualche modo sono le stesse figure tradizionali che però hanno cambiato completamente il loro modo di fare il mestiere. Ma anche figure nuove che si sostituiscono a un ruolo pubblico che in questo momento il grande archistar non riesce a fare.

Bovio: Mi sembrava ricorrente un elemento, sottointeso, forse lo possiamo esplicitare, che è quello però di una ricerca di una bellezza. E anche tu, rispondendomi alla domanda sulla filosofia del rammendo, dici “no, qua siamo un passo oltre”. Perché non è solo questione di metterci una pezza anzi forse è molto tempo che stiamo cercando, soprattutto nel nostro Paese, di metterci un po’ una pezza.

Forse dobbiamo essere un po’ più coraggiosi. Forse dobbiamo osare una bellezza. C’è questa dimensione anche nel placemaking?

Elena: sì, però potrei dire bellezza ma anche giustizia ma anche equità, ma anche visione.

Quindi sono tante le parole che mescolerei, non soltanto la bellezza classica, quella che di solito attribuiamo al nostro Paese.

La bellezza del nostro Paese è stato l’impedimento, pensare che noi oggi possiamo produrre un paesaggio bello come quello che c’è stato lasciato in eredità. E quindi, quando parliamo di bellezza, noi pensiamo sempre alle città storiche, al paesaggio della Toscana, ai borghi…

Abbiamo questo atteggiamento nostalgico, sentimentale, un po’ paternalista.

Il placemaker è un attore contemporaneo, è un visionario, è quello che sa tenere insieme la tecnologia e l’agricoltura, l’idea del cambiamento di un paesaggio ma anche l’economia.

E quindi scalza quell’idea che la bellezza sia conservazione intatta di qualcosa che abbiamo ereditato. No, la bellezza è quella che ci attende, quella che non abbiamo ancora immaginato.

È qualcosa che scardina, alle volte, l’armonia di quello che abbiamo intorno, il bel paesaggio-cartolina, ma deve esserci la capacità di interpretare il contemporaneo.

Bovio: E poi, se non capisco male, è una bellezza aperta in qualche maniera; non è una bellezza che si chiude.

FONDAZIONE PRADA A MILANO

Bovio: C’è un esempio nel tuo libro che mi ha molto colpito, anche perché siamo vicini di casa con l’esempio che tu fai, è Fondazione Prada a Milano.

Sicuramente un luogo di grandissima bellezza. Un luogo dove però, dici tu nel libro, l’arte si chiude.

Siamo in un contesto, tra l’altro, che qualcuno forse definirebbe di rigenerazione urbana perché siamo pochi metri dallo scalo di Porta Romana. Siamo in un’area ex industriale, periferia sud di Milano, fuori dalla circonvallazione, dove a un certo punto arriva Fondazione Prada e dice “questo luogo io lo trasformo radicalmente”.

Ecco però che questa trasformazione avviene solo nel perimetro della Fondazione stessa. Ovviamente è meraviglioso.

Elena Granata: Esatto. Questo è proprio un caso da manuale. Arriva il grande brand, recupera uno stabile in abbandono, chiama il più grande architetto al mondo, Rem Koolhaas, genera un luogo di arte, di innovazione, di visione che nessuno potrebbe dire che è brutto…

Bovio: Qualcuno sarà andato al Bar Luce di Wes Anderson a godere di quella bellezza…

Elena Granata: Esatto. È un luogo stupefacente dal punto di vista della bellezza. Ma mancano due ingredienti fondamentali, dal mio punto di vista.

Non ha effetto di luogo. Cioè non produce bellezza, valore, condivisione, apertura, lungimiranza sul contesto intorno. E quindi chi abita lì si trova di fronte a un masso erraticoche non comunica in nessuna maniera, non crea apertura… i bambini non possono andarci a giocare.

E poi, il secondo elemento, non c’è la natura. Non c’è un albero.

Cioè, l’incanto di quella bellezza, è una bellezza ufficiale artificiale. Ovviamente c’è dentro De Chirico, c’è dentro l’arte del Novecento, la sterilizzazione dello spazio pubblico che diventa iconico. Questa architettura che è puro volume, “sotto la luce” direbbe Le Corbusier.

Ma oggi non è più il tempo dell’architettura che parla a sé stessa o ai suoi adepti, che sono quelli che ovviamente possono avere l’invito per andare a Fondazione Prada.

Ma oggi è il tempo della bellezza civile, aperta a tutti, che regala bellezza al viandante, al passante, al povero cristo che vive in zona.

Questa idea, Rem Koolhaas non ce l’ha nella maniera più assoluta perché la bellezza è sempre qualcosa di esclusivo. E il lusso è qualcosa di cui, ovviamente, è lusso perché è accessibile a qualcuno.

Bovio: Assolutamente. È lusso in quanto non disponibile. Ecco, nel libro tu contrapponi questo modello, chiamiamolo un modello Fondazione Prada, quindi l’arte, la bellezza in uno spazio chiuso, a un altro modello che è il modello, e scusate ascoltatori e ascoltatrici se facciamo un altro esempio milanese, che è quello di Piazza Liberty.

Allora, cosa succede in piazza Liberty? A un certo punto arriva Apple e questa piazza bellissima nel centro di Milano, dietro via Vittorio Emanuele, dietro il duomo, diventa uno store di Apple dove però la distinzione netta tra cosa è store e cosa èpiazza non c’è.

E, allora, quindi abbiamo il brand che in qualche maniera restituisce spazio pubblico. Però, qual è il però? Che siamo sempre nell’ambito del brand. Quindi, comunque, è un operatore privato che rende il suo spazio un po’ pubblico.

Insomma, è un modello che si contrappone, come si risolve questa contraddizione?

Elena: Questo ci dice come è difficile verificare e valutare processi di rigenerazione. Perché, se li mettiamo sulla bilancia, …

Bovio: quello lo chiameresti un processo di rigenerazione?

Elena: Sì. Allora, lì abbiamo sempre un brand privato, che è Apple, che arriva in una piazza che in fondo ha perso la sua identità; scava questa architettura ipogea e realizza un negozio che è metà ipogeo, quindi sottoterra, e metà fuori. E costruisce questa piazza gradinata che però è un pezzo di piazza pubblica perché tutti si possono sedere e, chiaramente è “instagrammabile”, quindi è il classico luogo dove i teenagers vanno a farsi la foto, e non chiude mai.

Poi vive oltre gli orari del negozio. E quindi, in fondo, cede un po’ della sua autorevolezza, della sua proprietà, allo spazio pubblico.

Non è un’operazione perfetta, io non dico che una sia necessariamente meglio dell’altra. Però una ha effetti di luogo, cioè crea occasione per le persone di appropriarsi di quel pezzo di città, l’altra la rende esclusiva.

La filosofia di Apple, che è la filosofia del negozio, è quella munariana, “vietato non toccare”. Entri nel negozio e devi toccare.

E quindi dietro il brand c’è questa idea che entri, manipoli e provi tutti i device e devi riuscire a conoscere le cose toccandole.

Questa stessa filosofia c’è nello spazio pubblico, cioè tu sei ospite gradito se ti siedi, se stai sdraiato sui miei gradini perché in qualche modo questa piazza è anche tua.

Ecco, questi sono due processi molto diversi.

Non dico che dobbiamo replicare all’infinito il modello Apple. E quindi non c’è pregiudizio sul brand. Entrambi fanno un’operazione di rigenerazione urbana.

Però l’esito pubblico, la restituzione in termini di valore pubblico collettivo, una è più uno, l’altro è meno uno.

Bovio: Nel tuo libro, e magari andiamo a concludere, tu sottolinei a un certo punto una filosofia che ci aiuta molto a capire forse che cos’è veramente rigenerazione urbana, riassumendo un po’ tanti spunti che abbiamo percorso in questa tappa del nostro viaggio, che è la filosofia di Jan Gehl, che è un autore, un teorico urbanista danese che, dice, “bisogna ribaltare la concezione. Bisogna partire dalle persone, poi lo spazio pubblico e infine gli edifici”. Insomma, se sposiamo questa filosofia, è una rivoluzione abbastanza radicale mi sembra.

Elena Granata: Esatto. Questa è la metrica di Gehl, e dovrebbe essere la metrica dell’urbanistica. Partire sempre dalle persone, da quello che fanno, come si muovono, le loro abitudini, i loro desideri, che cosa esprime una comunità.

Poi lo spazio pubblico, che è lo spazio fra le case. E qui la grandissima rilevanza che oggi ha il ritorno nella, della natura in città.

Noi per circa un secolo abbiamo pensato che la natura dovesse stare fuori dalle città, che le città prescindessero dalla natura. Oggi, e questo è un punto che al placemaker ovviamente sta molto a cuore, tra le case ci sono gli animali, ci sono gli spazi verdi, ci sono gli spazi dell’acqua, c’è un’aria che dev’essere un’aria di qualità, respirabile, c’è l’impatto degli edifici. E quindi la questione ambientale diventa fortissima.

Bovio: Ed è un tema su cui torneremo nel nostro podcast.

Elena: Allora, lo spazio pubblico è lo spazio nel quale tutti questi valori, che sono quelli che finora non abbiamo considerato, perché lo spazio pubblico era lo spazio delle automobili, lo spazio dello scorrimento, lo spazio della fretta, oggi devono diventare il secondo punto da considerare.

Terzo, gli edifici cosa vuol dire che quando io progetto un nuovo quartiere penso prima allo spazio pubblico e poi allo spazio privato? Che, ad esempio, all’attore imprenditoriale, quindi al Prada di turno, io chiedo prima di costruirmi spazio pubblico collettivo, aree verdi, aree naturali. Poi gli concedo la possibilità di fare il suo investimento economico.

Quindi, questa è una metrica che non ha a che fare soltanto con l’estetica, i buoni sentimenti, un certo romanticismo che può essere ovviamente concesso ai Paesi nordici che sono sensibili alla natura. No, è la metrica di ogni intervento pubblico. E sta in capo al sindaco, all’assessore, all’amministrazione chiedere conto all’attore privato prima dell’investimento pubblico collettivo, e poi di quello privato.

Bovio: A questo punto mi rimane la domanda, ma di quei 1784 progetti, presentati e approvati dai comuni, per cui saranno stanziati 3,4 miliardi del PNRR, quanti progetti sono costruiti secondo questa metrica? Non credo che tu dia una risposta subito, però è una risposta importante per i prossimi anni.

Elena: Non lo so perché la logica è sommatoria. Ci auguriamo che la somma di tutti quei progetti abbia un effetto positivo.

Ma non si è in qualche modo imposto a priori dei valori che erano quelli premiali. Allora, più verde, più sostenibilità, più ricucitura, più investimento sul sociale… No, la metrica è ancora fondata molto sul fatto che quel progetto risponda a dei canoni edilizi. E quindi di progetto.

Starà in capo alla singola amministrazione essere virtuosa. Ancora una volta, anziché metterlo nelle premesse, e quindi imporre dei comportamenti coerenti e diffusi e uguali su tutto il territorio, noi speriamo che ci sia il sindaco illuminato, il progetto di qualità, il consulente capace di visione.

Bovio: Insomma, coloro che saranno poi gli esecutori di questi progetti, mi viene da dire, chiediamo di nuovo di essere dei pacemaker, se mi concedi la battuta.

E quindi grazie davvero per questa chiacchierata Elena Granata, docente di urbanistica appunto al politecnico di Milano, e io vi do un appuntamento alla prossima puntata di “Città”.

Elena Granata: Grazie.